Uno dei
Saggi di Jacqueline Risset su Dante. Ed. Flemmarion 1999
L'artificio della lingua dantesca
Ci
siamo mai chiesti come possano entrare all'interno dell'universo
poetico dantesco tutti coloro che non hanno il privilegio di leggere
la lingua
artificiosa
della Commedia
(sappiamo benissimo infatti che la lingua della Divina Commedia non
era quella parlata del Trecento, ma una lingua alta, creata da Dante,
se vogliamo, “a tavolino”) e coglierne immediatamente il suo
significato?
Purtroppo
mi accorgo sempre più come anche a noi italiani, soprattutto
nell'ultimo decennio, sia diventata ostica la lettura delle terzine
dantesche, tanto da richiedere l'uso di una parafrasi,
un testo altro
che
affianca l'originale, una sorta di semplificazione che si prefigge di
gettare una luce chiarificatrice sul testo autentico. A mio avviso
non è concepibile trasmutare in “italiano corrente” un testo
antico, sviscerandone così l'intima bellezza della lingua, ma, con
un gesto di umiltà da parte di noi
Moderni nei
confronti degli
Antichi, il
testo deve semplicemente essere letto e capito, entrando
appieno in sintonia con il suo autore.
Ed
è così che dovrebbe accadere con la Commedia il cui linguaggio (è
bene specificarlo) non è quello che il poeta descrive nel De
Vulgari eloquentia,
ossia il volgare ideale, una lingua illustre, presente nei dialetti
italiani ma non coincidente con nessuno di questi (fiorentino
compreso) perché priva del manto di municipalità e gergalità che
la lingua letteraria non può permettersi.
Il
linguaggio
della Commedia
ha come base il dialetto fiorentino ma innestato da arcaismi,
neologismi, presenza di doppioni, sinonimi e latinismi.
La fortuna di noi compatrioti del Poeta
Purtroppo
molti studenti, già ai tempi in cui frequentavo il liceo classico,
si avvalevano di auxilia,
libricini
in cui il testo di Dante era malamente tradotto
e
spiegato nel nostro
italiano moderno,
delle ancore di salvataggio che avevano il compito di aiutare i
ragazzi nel pieno di una crisi intellettuale, causata dalla
difficoltà di capire una lingua così lontana dalla propria.
Chi di voi non ha mai sentito parlare di questi
libricini miracolosi?
La fortuna che possediamo noi italiani è
incommensurabile se messa a confronto con lo sforzo degli stranieri
(inglesi, francesi e tedeschi) che non possono suggere direttamente
dalla fonte sorgiva, madevono servirsi inevitabilmente di una fonte secondaria,
la traduzione della lingua di Dante nella propria lingua madre.
Il compito è arduo: non solo per coloro che devono
comprendere uno dei geni indiscussi del panorama letterario italiano,
ma anche (e soprattutto direi!) per coloro che hanno l'onore e
l'onere di tradurlo.
La poetessa Jacqueline Risset e la decriptazione della Commedia
JacquelineRisset poetessa, critica letteraria ed esperta studiosa di Dante racconta il
suo compito di traduttrice della Divina Commedia come se si trattasse
di un'esperienza extrasensoriale, che le ha permesso di entrare nel
vivo della lingua dantesca, di decriptare, con rinnovata sorpresa, la selva
oscura
di simboli, messaggi di cui è intessuta la trama della Commedia,
indissolubilmente collegati fra loro dalla ponderosa orditura della
terza rima che ne costituisce il collante, legando ciascun verso al
seguente così da sospingere in avanti la lettura.
La Risset racconta di aver scoperto la Commedia, che
all'inizio sentiva <<un poema lontanissimo>>, grazie
all'adesione al gruppo “Tel Quel”, rivista francese trimestrale
fondata nel 1960 che dava spazio alla letteratura d'avanguardia, alle
scienze umane, alla politica ed alla filosofia, considerate dai suoi
membri, non compartimenti stagni, bensì discipline interfacciabili.
La traduzione di due lettere di Giambattista Vico sulla lingua
dantesca, ha spinto la Risset a leggere le opere del Fiorentino
carpendone la straordinaria modernità.
Jacqueline Risset
all'inaugurazione della Poesia Festival a Vignola nel 2011
|
Tradurre
un'opera significa appropriarsi di quel testo, un atto centripeto che
porta il traduttore verso il testo madre, o meglio dentro
il
testo madre, in un universo semiotico tutto da scoprire. Le
difficoltà che il traduttore riscontra però sono innumerevoli,
spesso la bramosia di carpire il significato originale dell'opera
senza modificarne il senso, si scontra con l'incapacità di trasporre
la lingua dell'autore in un degno equivalente. In effetti Dante
stesso esplicita l'incapacità di ridurre la poesia ad un mero testo
in prosa nel libro I del Convivio:
“E
però sappia ciascuno che nulla cosa
per
legame
musaico
armonizzata si puòda
la sua loquela in altra trasmutare
senza
rompere tutta la sua dolcezza e armonia”
(Convivio,
I, VII,14)
La
traduzione da una lingua poetica ad un'altra, comporta
inevitabilmente una rottura dell'ordito poetico, di quel legame
musaico
di cui parla Dante, che è pura creazione, che viene inevitabilmente
intaccato e distrutto dalla traduzione, la quale si propone di
sostituirsi al testo originale sovrapponendone un altro mai identico,
ma similare,
rompendo quindi il rapporto esistente fra significante e significato
per crearne uno nuovo.
La
Risset spiega come l'atto del tradurre però non debba essere
considerato un'operazione ancillare, il semplice calco del testo
originale, bensì la chiave di volta per aprire la porta alla
comprensione totale del testo madre, la possibilità di aprire un
varco di luce in quella
“selva oscura”
di simboli prima ostici o difficilmente comprensibili appieno dallo
straniero. Se guardiamo bene, questo arduo compito era chiarissimo
molto tempo fa a quel celebre TitoLucrezio Caro
che per primo ebbe il coraggio di tradurre in lingua latina le opere
greche del grande maestro Epicuro, sebbene la lingua dei Romani fosse
povera di parole (la patris
sermonis egestas)
capaci di rendere concetti filosofici greci (De
rerum naturae I, vv-136-139):
“Nec
me animi fallit
Graiorum obscura reperta
difficile illustrare Latinis versibus esse,
multa novis verbis praesertim cum sit agendum
propter
egestatem linguae et rerum novitatem”
“Nè
certo sfugge al mio animo che è arduo spiegare le oscure
scoperte dei Greci
con versi latini, soprattutto perché se ne devono trattare molte con
vocaboli nuovi per
la povertà della lingua e la novità dei concetti”
(trad. di G.Biagio Conte, ed. BUR 2000)
Per
Jacqueline Risset una cosa è importante: mantenere la memoria del
testo originale, del suo autore e quella del traduttore, della sua
lingua. Ciò porta inevitabilmente a fare delle scelte: quale rima,
quale parola, quale nesso potrà render meglio il concetto poetico
espresso da Dante? Tale è la domanda che si è posta la Risset
quando si è avvicinata per la prima volta al testo della Commedia e
il suo lavoro di decodificatrice armata di cesello e scalpello hadato i suoi notevoli frutti, basti
vedere un estratto dal Canto
I del Purgatorio.
Per
chi conosce un po' il francese sarà cosa lieta leggerne la
traduzione:
“ Pour
cueillir meilleure eau il hisse les voiles
à présent le petit
vaisseau de mon esprit
qui laisse derrière soi mer si
cruelle:
et je chanterai le second royaume
où l’esprit
humain se purifie
et de montrer au ciel devient plus digne.
Mais
ici la morte poésí resurgisse,
o saintes Muses, puisque je
suis à vous;
et que Calliope un peu se lève
suivant mon
chant avec cette musique
dont les Pies désolées sentirent le
coup
si fort, qu’elles perdirent tout espoir de pardon.”
|
“Per corre miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l'umano spirito si purga
e di salir al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calliopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.”
|
Isabel
Morellato
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