venerdì 30 maggio 2014

Jacqueline Risset e la “selva oscura” della traduzione






Uno dei Saggi di Jacqueline Risset su Dante. Ed. Flemmarion 1999

  • L'artificio della lingua dantesca


Ci siamo mai chiesti come possano entrare all'interno dell'universo poetico dantesco tutti coloro che non hanno il privilegio di leggere la lingua artificiosa della Commedia (sappiamo benissimo infatti che la lingua della Divina Commedia non era quella parlata del Trecento, ma una lingua alta, creata da Dante, se vogliamo, “a tavolino”) e coglierne immediatamente il suo significato?

Purtroppo mi accorgo sempre più come anche a noi italiani, soprattutto nell'ultimo decennio, sia diventata ostica la lettura delle terzine dantesche, tanto da richiedere l'uso di una parafrasi, un testo altro che affianca l'originale, una sorta di semplificazione che si prefigge di gettare una luce chiarificatrice sul testo autentico. A mio avviso non è concepibile trasmutare in “italiano corrente” un testo antico, sviscerandone così l'intima bellezza della lingua, ma, con un gesto di umiltà da parte di noi Moderni nei confronti degli Antichi, il testo deve semplicemente essere letto e capito, entrando appieno in sintonia con il suo autore.
Ed è così che dovrebbe accadere con la Commedia il cui linguaggio (è bene specificarlo) non è quello che il poeta descrive nel De Vulgari eloquentia, ossia il volgare ideale, una lingua illustre, presente nei dialetti italiani ma non coincidente con nessuno di questi (fiorentino compreso) perché priva del manto di municipalità e gergalità che la lingua letteraria non può permettersi.
Il linguaggio della Commedia ha come base il dialetto fiorentino ma innestato da arcaismi, neologismi, presenza di doppioni, sinonimi e latinismi.


  • La fortuna di noi compatrioti del Poeta


Purtroppo molti studenti, già ai tempi in cui frequentavo il liceo classico, si avvalevano di auxilia, libricini in cui il testo di Dante era malamente tradotto e spiegato nel nostro italiano moderno, delle ancore di salvataggio che avevano il compito di aiutare i ragazzi nel pieno di una crisi intellettuale, causata dalla difficoltà di capire una lingua così lontana dalla propria.
Chi di voi non ha mai sentito parlare di questi libricini miracolosi?

La fortuna che possediamo noi italiani è incommensurabile se messa a confronto con lo sforzo degli stranieri (inglesi, francesi e tedeschi) che non possono suggere direttamente dalla fonte sorgiva, madevono servirsi inevitabilmente di una fonte secondaria, la traduzione della lingua di Dante nella propria lingua madre.
Il compito è arduo: non solo per coloro che devono comprendere uno dei geni indiscussi del panorama letterario italiano, ma anche (e soprattutto direi!) per coloro che hanno l'onore e l'onere di tradurlo.


  • La poetessa Jacqueline Risset e la decriptazione della Commedia


JacquelineRisset poetessa, critica letteraria ed esperta studiosa di Dante racconta il suo compito di traduttrice della Divina Commedia come se si trattasse di un'esperienza extrasensoriale, che le ha permesso di entrare nel vivo della lingua dantesca, di decriptare, con rinnovata sorpresa, la selva oscura di simboli, messaggi di cui è intessuta la trama della Commedia, indissolubilmente collegati fra loro dalla ponderosa orditura della terza rima che ne costituisce il collante, legando ciascun verso al seguente così da sospingere in avanti la lettura.
La Risset racconta di aver scoperto la Commedia, che all'inizio sentiva <<un poema lontanissimo>>, grazie all'adesione al gruppo “Tel Quel, rivista francese trimestrale fondata nel 1960 che dava spazio alla letteratura d'avanguardia, alle scienze umane, alla politica ed alla filosofia, considerate dai suoi membri, non compartimenti stagni, bensì discipline interfacciabili. La traduzione di due lettere di Giambattista Vico sulla lingua dantesca, ha spinto la Risset a leggere le opere del Fiorentino carpendone la straordinaria modernità.


 

Jacqueline Risset all'inaugurazione della Poesia Festival a Vignola nel 2011

Tradurre un'opera significa appropriarsi di quel testo, un atto centripeto che porta il traduttore verso il testo madre, o meglio dentro il testo madre, in un universo semiotico tutto da scoprire. Le difficoltà che il traduttore riscontra però sono innumerevoli, spesso la bramosia di carpire il significato originale dell'opera senza modificarne il senso, si scontra con l'incapacità di trasporre la lingua dell'autore in un degno equivalente. In effetti Dante stesso esplicita l'incapacità di ridurre la poesia ad un mero testo in prosa nel libro I del Convivio:

E però sappia ciascuno che nulla cosa
per legame musaico armonizzata si puòda la sua loquela in altra trasmutare
senza rompere tutta la sua dolcezza e armonia”
(Convivio, I, VII,14)

La traduzione da una lingua poetica ad un'altra, comporta inevitabilmente una rottura dell'ordito poetico, di quel legame musaico di cui parla Dante, che è pura creazione, che viene inevitabilmente intaccato e distrutto dalla traduzione, la quale si propone di sostituirsi al testo originale sovrapponendone un altro mai identico, ma similare, rompendo quindi il rapporto esistente fra significante e significato per crearne uno nuovo.

La Risset spiega come l'atto del tradurre però non debba essere considerato un'operazione ancillare, il semplice calco del testo originale, bensì la chiave di volta per aprire la porta alla comprensione totale del testo madre, la possibilità di aprire un varco di luce in quella “selva oscura” di simboli prima ostici o difficilmente comprensibili appieno dallo straniero. Se guardiamo bene, questo arduo compito era chiarissimo molto tempo fa a quel celebre TitoLucrezio Caro che per primo ebbe il coraggio di tradurre in lingua latina le opere greche del grande maestro Epicuro, sebbene la lingua dei Romani fosse povera di parole (la patris sermonis egestas) capaci di rendere concetti filosofici greci (De rerum naturae I, vv-136-139):

Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta
difficile illustrare Latinis versibus esse,
multa novis verbis praesertim cum sit agendum
propter egestatem linguae et rerum novitatem

Nè certo sfugge al mio animo che è arduo spiegare le oscure scoperte dei Greci con versi latini, soprattutto perché se ne devono trattare molte con vocaboli nuovi per la povertà della lingua e la novità dei concetti” (trad. di G.Biagio Conte, ed. BUR 2000)

Per Jacqueline Risset una cosa è importante: mantenere la memoria del testo originale, del suo autore e quella del traduttore, della sua lingua. Ciò porta inevitabilmente a fare delle scelte: quale rima, quale parola, quale nesso potrà render meglio il concetto poetico espresso da Dante? Tale è la domanda che si è posta la Risset quando si è avvicinata per la prima volta al testo della Commedia e il suo lavoro di decodificatrice armata di cesello e scalpello hadato i suoi notevoli frutti, basti vedere un estratto dal Canto I del Purgatorio.
Per chi conosce un po' il francese sarà cosa lieta leggerne la traduzione:

Pour cueillir meilleure eau il hisse les voiles
à présent le petit vaisseau de mon esprit
qui laisse derrière soi mer si cruelle:
et je chanterai le second royaume
où l’esprit humain se purifie
et de montrer au ciel devient plus digne.
Mais ici la morte poésí resurgisse,
o saintes Muses, puisque je suis à vous;
et que Calliope un peu se lève
suivant mon chant avec cette musique
dont les Pies désolées sentirent le coup
si fort, qu’elles perdirent tout espoir de pardon.”
“Per corre miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l'umano spirito si purga
e di salir al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calliopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.”



Isabel Morellato

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